Carissimi,
sono da quasi un mese nella capitale mondiale della moda, che per i primi giorni ho vissuto da turista meravigliandomi di quanto sia buono il cibo, quanto vecchia la popolazione e quanto ordinata la vita. Il salto da Garoua a Milano è esagerato. Non nego che tornare dopo 9 mesi d’africa e sbarcare qui, sia altamente disorientante.
Ovviamente è bellissimo farsi coccolare da famiglia e fidanzata, ritrovare gli amici, la musica, una città con così tante opportunità...ma è a anche vero che in un nanosecondo ci si accorge di come le opportunità siano troppe, di come il privilegio di poter scegliere sia in realtà un illusione, e di come questa società sia studiata apposta perché non si possa non cadere tra le braccia della subdola ma affascinante sirena che ogni giorno ti invita ad essere qualcuno che non sei.
Vorrei condividere con voi questo passo di un libro che avevo già citato in precedenza su questo sito, ovvero Il banchiere dei poveri di Muhammad Yunus.
Siamo a cavallo tra gli anni sessanta e settanta ed il premio Nobel, appena approdato dal Bangaladesh in una delle più rinomate università statunitensi, incappa in un pranzo con gli amici americani, incarnando con questa scena farsesca le difficoltà di uno straniero davanti ad un insolita possibilità di scelta.
Un giorno Cheryl mi domandò:
“Come le vuoi le uova?”
“Cosa intende? Non capisco la domanda…”
“Le vuoi al tegamino, strapazzate, sode in camicia, o vuoi una frittata...”
“Al tegamino.”
“Va bene, e come te le faccio?”
“Gliel’ho appena detto…al tegamino.”
“Si, ma col rosso in alto o rivoltate?”
“Non ha importanza.”
A quel punto i miei amici si erano fatti attorno per consigliarmi, ridendo della mia sprovvedutezza e cercando di spiegare a Cheryl che noi bengalesi eravamo diversi.
“Allora col rosso in alto,” dissi alla fine, imbarazzato per la mia indecisione e consapevole del fatto che stavo dando spettacolo.
“Morbide o ben cotte?”
“Come le sembra meglio.”
“Con il pane, le cialde o le fette tostate?”
”Mi va bene qualsiasi cosa.”
“E per contorno cosa desideri: patate fritte, purè o crocchette di patate?”
Per un po’penai che lo facesse apposta per rendermi ancora più ridicolo di fronte agli altri. Ma poi capii che l’America era quella: la possibilità di scegliere tra una gamma infinita di cose.
Ecco, quell’America del ’68 per un bengalese, somiglia tantissima a quest’Italia d’oggi per me.
Non che un anno fa fosse diversa ma probabilmente una parentesi anche non lunga in un luogo in cui lo stile di vita è così diverso, contribuisce a farmi stupire di alcune facce di una realtà che credevo di conoscere e che invece mi risulta così curiosa dopo nove mesi di cameroun.
Mi trovo disorientato.
Probabilmente sono alla domanda “Con il pane, le cialde o le fette tostate?” e poi anch’io stremato dovrò rispondere forse rassegnato che mi va bene qualunque cosa.
Non per ripudiare una conquista sociale che va a vantaggio dei tanti che, buon per loro, sono capaci di districarsi in questo marasma di possibilità, ma la prima impressione di un espatriato che si imbatte nuovamente nel suo vecchio mondo è che forse c’abbiamo un po’calcato la mano.
Con un universo rigurgitante di colori ancora fresco negli occhi vi saluto regalandovi (nel prossimo post) un nostalgico souvenir di una delle esperienze più divertenti degli ultimi giorni passati a Garoua: la realizzazione del video di “Ide mada odo Sakli am”, che abbiamo appena finito di montare e che ora è a disposizione del grande pubblico.
Con affetto
jj escalante
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4 commenti:
sì, l'occidente sembra rigurgitante, ma è davvero davvero solo illusione... in realtà siamo sì messi da certi punti di vista meglio che in Africa, ma siamo anche in piena recessione economica... non c'è nemmeno una persona che conosca, in Italia, che stia riuscendo a realizzare esattamente quello che vuole con le sue mani. Proprio non si può mettere da parte niente, e le pubblicità, i colori, le uova al tegamino sono proprio specchietti per allodole, servono a distrarci dal fatto che non abbiamo nessuna pietra con cui costruire cose solide.
So che c'è gente che se la passa bene, che ha una famiglia ricca, che ha già da parte qualche mila euro discretissimo. Ma la maggioranza decisamente no.
Stefania
PS: sto lavorando su Dreamland, ti chiamo appena posso!
Ci penso spesso a questa cosa della confusione della metropoli. Beh, adesso vedrai a Natale: ci faranno impazzire. Ho sempre vissuto Milano come la sola via di salvezza dall'ottusità e dalla asfissia della mia provincia: senza essere un diamante della violenza o del disagio giovanile, la mia piccola cittadina resta ancorata al medioevo mentale. Quando sono arrivata a Milano l'apertura mentale anche delle persone più stupide o insignificanti mi sembrava un sogno.
Adesso sono cresciuta un po' e mi accorgo che al mondo si può ambire a qualcosa di meglio che essere una milanese. L'apertura mentale a volte è solo abitudine a "vederne di tutti i colori". Il "lascia vivere" è piuttosto un "chissenefrega" nella maggior parte dei casi.
Beh, me ne sarò accorta quando sono stata male in metro e nessuno mi ha aiutato? Le due volte che in centro sono stata assalita da maniaci e nessuno è intervenuto? Tutte le volte che trovo scritte razziste? O ogni volta che all'elezioni i milanesi votano persone colluse con criminali e incompetenti, piuttosto che votare a sinistra?
In compenso la moda, anzi la capitale della moda, il glam che mi circola sottopelle ogni volta che vado al lavoro, perchè ogni lavoro che trovo è sempre nei negozi di moda, l'unica vera industria di Milano oltre al settore bancario e al design. La cosa mi rende strana, perché poi giro per le vie del centro analizzando le marche dei vestiti della gente, illudendomi che sia un modo per essere più vicino alle persone, conoscere una cosa tanto intima come quello che mettono a contatto con la pelle. In realtà non c'è cosa più stupida.
E il colore di una cintura diventa un affare capitale quando lavori in negozio. Cinture che vengono pagate dei soldi che mai potrebbero valere, naturalmente.
A volte a Milano mi sento disorientata, e anche lo smog non mi fa arrivare abbastanza ossigeno al cervello, lo sento perché al mattino in piazzale loreto mi girava sempre la testa, e così quando passo davanti alla circonvallazione. Capita addirittura che senta la mancanza dei ritmi più rarefatti della mia provinciale provincia.
Chissà com'è in Africa.
Quando sono arrivata a Milano, mi sono sentita dipendente e appartentente a questa città come a nient'altro. Adoravo salire in metropolitana e veder sparire piano piano i ciffoni di periferia (i palazzoni) tipicamente da hinterland, per veder comparire i palazzoni milanesi (molto diversi), e poi scendere in galleria, e spuntare o nella piazza più trafficata o nella meravigliosa piazza duomo.
Adesso che giro tra Varese, i laghi, la provincia e Milano, penso che non sarebbe male neppure appartarsi per una vita più normale, per fare meno cose ma godersele un po'. A casa di Susanna posso fare due passi e andarmi a sedere in una piazza con un belvedere sul lago, e godermi l'autunno. Due volte all'anno vedo le pecore; ogni paesino ha i suoi cavalli, le sue mucche. Più vai in direzione della Svizzera e più vedi verde: riempie gli occhi.
Chissà com'è in Africa con tutto quel giallo e quel rosso e quel marrone. Quel caldo. Col caldo dev'essere impossibile avere ritmi veloci. Bisogna diventare bradipi per non disperdere energie. Così me l'immagino.
Credo che davvero un giorno ci andrò, anche se non farò di colpo un anno, ormai quello l'ho deciso.
Chissàche non venga il mal d'Africa anche a me.
Stefania
You read these things, I think the mood has changed for the better!
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